Ecco perché non ho votato la fiducia al Governo Conte. Intervista a Matteo Richetti
di Daniele Antonio Vigliotti
Passione, impegno, trasparenza. Tre sostantivi che negli ultimi tempi di rado vengono associati alla politica e al mondo delle istituzioni, visti sempre con più sospetto da parte dei cittadini. Eppure c’è chi ha posto al centro del suo impegno politico e delle sue scelte proprio questi tre valori, alla luce dei quali ha giustificato una delle decisioni politiche che hanno aperto la strada a non poche critiche nei suoi confronti. Parliamo del Senatore Matteo Richetti, che racconta proprio di questo in «Presidente, non avrà la mia fiducia». Per chi non si riconosce in un Paese che «funziona così», in uscita oggi per Guerini e Associati.
Un titolo emblematico che rappresenta il momento topico del saggio: la volontà del Senatore di non votare la fiducia al Governo Conte bis, formato dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico, in cui Richetti ha militato per anni prima della sofferta decisione di abbandonarlo proprio per non seguirlo nell’avventura accanto ai Cinque Stelle. Un gesto che Richetti presenta come prova distintiva del suo non riconoscersi più in un’Italia che «funziona così» e segno di come nel nostro Paese sia ancora viva una cultura politica fondata sulla forza degli ideali. E non è un caso che questi ricorrano spesso nel libro, rappresentandone il vero filo conduttore.
Tanti gli episodi raccontati e i temi affrontati dal Senatore Richetti: dalle onlus allo squilibrio strutturale tra il nord e il sud del Paese, passando anche per la nascita di Azione, il partito di cui attualmente fa parte. Fondato pochi mesi fa dallo stesso Senatore e da Carlo Calenda, Azione si propone di rinnovare la scena politica italiana investendo su alcuni dei settori chiave del nostro Paese, dalla sanità all’istruzione, dalla cultura alla ricerca.
«Che te ne viene in tasca?» le hanno chiesto alcuni colleghi a proposito della sua decisione di non votare la fiducia al secondo governo Conte. Che tipo di idea della politica si cela dietro una tale domanda? E cosa o come dovrebbe tornare a essere la politica per riconquistare dignità e fiducia agli occhi dei cittadini?
Non è mia intenzione giudicare le scelte dei miei colleghi. C’è però un dato di fatto, in troppi si riempiono la bocca di politica come servizio, in troppi abusano del termine coerenza, quando credo che ciò che sta accadendo nella politica del nostro Paese sia oltre la soglia dell’accettabile.
Con assoluta disinvoltura chi aveva preso voti impegnandosi a una battaglia coerente contro il populismo si è alleato con i populisti, con altrettanta disinvoltura chi aveva definito il Partito Democratico un cancro del sistema italiano e una piovra che attanagliava i cittadini ha deciso di governarci insieme. Io penso che alla strumentalità ci sia un limite, la Politica tornerà a essere credibile il giorno in cui alle parole pronunciate corrisponderanno i comportamenti conseguenti.
Oltre alla politica come passione, il senso delle istituzioni è l’altro filo conduttore che attraversa il libro. Quanto può essere importante riuscire a comunicare questo modo di vivere la sfera pubblica?
Il titolo di questo libro non contiene solo la decisione di non votare la fiducia al Governo Conte bis, in quel chiamarlo Presidente c’è tutto il senso del rispetto e del riconoscimento delle Istituzioni. In politica si possono fare battaglie dure, ma che non vanno mai fuori dal confine del rispetto delle persone e del rispetto della Costituzione. Basta accendere la TV, guardare qualunque talk show per sentire parlare di governi illegittimi, di governi non votati dagli elettori o “…sarà pure il Presidente del Consiglio ma non è il mio Presidente”, quando un politico non riconosce le Istituzioni fa un disservizio al Paese e anche a se stesso. Se vogliamo tornare a costruire, nel nostro Paese, un senso di fiducia dove la Politica è la soluzione e non il problema, dove le Istituzioni danno risposte e non sono autoreferenziali, allora bisogna cominciare a riconoscere per primi gli avversari anche quando ottengono fiducia senza il nostro voto, anche quando sono figli di maggioranze parlamentari secondo noi frutto di trasformismo. Si possono giudicare i comportamenti, ma le Istituzioni quando rispettano le regole della Costituzione sono sempre da onorare, come ci chiede la Costituzione stessa.
Prima il populismo ha riempito le piazze, poi è sbarcato sui social. Oggi i post e i tweet sembrano aver sostituito le comunicazioni ufficiali. Cosa pensa di questa nuova stagione della comunicazione in politica?
Il problema non è l’ufficialità delle comunicazioni quanto il clamoroso equivoco che stiamo vivendo tra fine e mezzo. I social sono un mezzo straordinario per costruire relazioni, laddove non è possibile farlo direttamente, ma non sono sostitutivi dell’incontro e della relazione diretta che sono strumenti essenziali per la Politica. I social dovrebbero essere un mezzo per veicolare contenuti e invece troppo spesso sono il fine dell’azione in sé. Si compete sulla conta di like e follower e non si compete più sulle idee, sui progetti, sull’alternativa tra una visione proposta dall’uno e quella proposta dall’altro. E non c’è migliore alleato del populismo della superficialità, perché ciò che unisce i populisti è semplificare i problemi, evitare le complessità e illudere i cittadini che tutto si possa risolvere con la bacchetta magica, o meglio con un voto ben riposto. La realtà è che per cambiare le cose servono comportamenti responsabili diffusi, assunzioni di responsabilità e senso dello Stato che guardi agli interessi generali prima di quelli particolari.
L’esperienza degli “harambee” ha avuto un enorme successo. Pianura, Bologna, Palagano ne sono esempi concreti. Perché ritiene che siano modelli importanti a cui la politica dovrebbe guardare? E in che misura Azione potrebbe trarre qualche beneficio confrontandosi con questi?
La formula degli Harambee, che prevede un grande protagonismo della società, delle esperienze più virtuose nelle quali la Politica ascolta e assume istanze e bisogni, ha grande successo, anche in considerazione della grande crisi che vivono i partiti oggi. Di fatto i partiti non sono altro che sindacati di ceto politico, cioè organizzazioni che passano il loro tempo a pensare a come protrarre per il maggior tempo possibile la carriera dei propri dirigenti. Di fronte a un bivio tra ciò che è giusto e ciò che conviene, si sceglie sistematicamente la seconda strada, e questo i cittadini lo hanno capito a tal punto che rifuggono in massa l’impegno nei partiti. Io credo che questo sia un problema da affrontare e superare con urgenza, perché non esiste la politica senza i partiti ed è il motivo per cui insieme a Carlo Calenda ne abbiamo costruito uno: quello di ridare cittadinanza alla politica, quello di ridare cittadinanza alle persone attraverso una partecipazione vera, attraverso la possibilità di costruire proposte condivise e soprattutto dando voce alle competenze prima che alle convenienze. Per affrontare problemi complessi serve grande studio e preparazione. I partiti devono tornare a fare questo, diventare serbatoi di idee e di approfondimento e non solo spazi che si attivano in occasione di congressi o primarie, tra l’altro quasi sempre svolti in maniera discutibile. Nel libro racconto anche di questo.
Esistono questioni alle quali si dovrebbe rispondere con un approccio unitario. È il caso della crisi che stiamo vivendo a seguito dei contagi da coronavirus, ad esempio. Come dovrebbe collocarsi la politica nel rapporto tra salute fisica e psicologica dei cittadini e salvaguardia del benessere economico del Paese?
Alla fine la politica italiana non ha resistito alla tentazione di vivere anche l’emergenza del Coronavirus come una grande opportunità di speculazione. La politica ha parlato, pure troppo, e molto spesso a sproposito. Non troverete su questa vicenda una mia dichiarazione, un mio tweet, un mio post: perché credo che quando l’emergenza è sanitaria debba parlare il Governo, e la politica si dovrebbe limitare a mettere in campo i provvedimenti suggeriti e consigliati dalla scienza. E invece si è voluto fare a gara a chi ci ha messo più la faccia, a chi ha preso i provvedimenti di maggiore prudenza o di maggiore coraggio, non comprendendo che in certi momenti il problema non è la visibilità o il giudizio che il politico può attrarre su di sé, ma la messa in sicurezza dei cittadini, della società e dell’economia del nostro Paese.
Negli ultimi tempi è emerso uno scontro generazionale tra i millennials e le generazioni precedenti, accusate di aver fatto troppo poco per consegnare alle nuove generazioni un mondo più che equo. A proposito di approccio unitario della politica ai problemi epocali, come crede che potrà evolvere questa vicenda?
Buon senso vorrebbe che le generazioni si prendessero per mano quando è ora di attraversare momenti epocali nelle trasformazioni della società, ma qui il problema è che, sistematicamente, per accaparrarsi qualche consenso in più la politica parla ai già garantiti, dimenticando chi di garanzie non ne ha nemmeno una. E se fossi un ragazzo di vent’anni oggi, francamente, non potrei guardare con nessuna credibilità alle forze che hanno composto prima il Governo giallo-verde e poi il Governo giallo-rosso. Non so come un giovane possa schierarsi al fianco del Movimento 5 Stelle, del Partito Democratico o della Lega, quando tutti si sono resi protagonisti di manovre di bilancio che, approvando quota 100, hanno disposto miliardi per anticipare di qualche mese la pensione di chi un lavoro ce lo aveva garantito, e si sono completamente dimenticati dei tanti ragazzi che in Italia oggi non trovano un’opportunità. È ora di smetterla con le parole di maniera. Questa è una società che ha distribuito garanzie eccessive in passato e adesso chiede ai giovani di trovare il coraggio di guardare al futuro. Servirebbe il buon senso di redistribuire anche ciò che si è indebitamente costruito per le generazioni passate, con maggiore solidarietà verso le generazioni future. Prima che ulteriori nuove pensioni, bisognerebbe finanziare scuola e sanità, che possano rappresentare non solo una grande opportunità occupazionale per i nostri giovani medici e insegnanti, ma anche una risposta ai beni primari delle persone.
Un punto su cui Azione insiste molto è l’incremento degli investimenti sulla cultura, l’istruzione e la ricerca. Al di là dell’aspetto economico, ci può indicare una proposta concreta di Azione per ognuno di questi ambiti che sono molto cari ai nostri lettori?
Ciò che anima Azione è la convinzione che sui settori fondamentali di competenza dello Stato si debba tornare a investire e a efficientare la spesa già destinata. Sulla cultura è necessario promuovere e valorizzare ogni intervento pubblico e privato, anche attraverso leve fiscali di premialità per chi investe nel settore. Inoltre serve un vero e proprio piano industriale che faccia sviluppare l’impresa privata nel settore della cultura, nel settore dell’intermediazione dell’offerta sia culturale sia turistica. Questo dovrebbe essere il vero giacimento di petrolio del nostro Paese, sul quale troppo spesso le attività estrattive (!) sono solo di società straniere e multinazionali. Sull’istruzione è fondamentale armonizzare in tutto il Paese l’offerta del tempo pieno, integrando le attività didattiche con quelle più legate alle forme artistiche, di lettura, di espressione di qualunque tipo, perché la scuola non è solo nozione, ma è lo strumento principale di crescita e di formazione degli adulti di domani. Sulla ricerca non ci sono molti giri di parole da fare, ne basta una per tutte: fondi. Bisogna destinare le risorse che oggi non sono destinati alla ricerca, e procedere a un grande piano di assunzioni a partire dalla ricerca scientifica che, proprio in questi giorni, si rivela fattore di straordinaria importanza per un Paese che voglia definirsi civile.